Il faticoso lavoro del contadino
Cando m’ammento s’edade pizzinna
Triballande sa terra cun amore,
allegros semenande su laore
cun d’unu aradu fattu’e linna
Per poter seminare il grano, l’orzo……, bisognava innanzi tutto preparare il terreno che doveva essere ben pulito e arato. Nel mese di agosto, nei campi destinati alla semina, si tagliavano le frasche e le stoppie, e, all’inizio dell’autunno, si bruciavano. L’agricoltore coscienzioso faceva in modo che il fuoco non si propagasse nel territorio circostante; raccoglieva, poi, tutte le pietre sparse qua e là e le ammucchiava nel campo o ai margini di esso. Dopo di che procedeva al dissodamento del terreno, eseguito con l’aratro di legno o di ferro. Il sistema di coltivazione più comune era quello a rotazione biennale, le tecniche produttive erano di tipo estensivo, la proprietà era molto frazionata, e le rese molto basse. La variabilità della produzione era legata sia all’uso di tradizionali strumenti come l’aratro trainato dai buoi o la falce, sia allo scarso impiego di fertilizzanti chimici, ma anche all’inclemenza del clima, infatti dal suo andamento dipendevano le sorti del raccolto, della vita intera del lavoratore e della sua famiglia. Non sempre i terreni venivano concimati, gli usi tradizionali prevedevano che il concime, consistente in letame, si usasse ogni tanto e, soprattutto, per la preparazione di terreni destinati alla coltivazione di leguminose. Si coltivavano il grano duro, l’orzo, l’avena, i legumi, in particolare le fave, il lino per uso familiare ma anche l’olivo, la vite e gli ortaggi. Le aree destinate alla coltivazione dei cereali variavano in rapporto alla superficie che ognuno possedeva: di solito 2 – 3 ha a grano, 1 ha ad orzo, ½ ha a fave. In attesa delle prime piogge, verso la metà di settembre, incominciavano i grandi lavori per la nuova annata; i contadini preparavano gli strumenti di lavoro: il carro, l’aratro, la zappa e le sementi. Le terre destinate alla coltura del grano subivano la prima aratura. I contadini impiegavano una coppia di buoi che si attaccavano tramite il giogo. Il giogo veniva fissato alle corna con delle lunghe corregge di pelle che si incrociavano sulla fronte. I buoi venivano guidati con funi, a loro volta legate al corno esterno dell’animale e al manubrio della stiva dell’aratro, che veniva così tirato dagli animali. Il contadino incitava i buoi a procedere pungolandoli con “su puntorzu” (un bastone con una punta di metallo).
Calendario dei lavori agricoli.
Di solito l’aratura del terreno e la semina del grano avvenivano in ottobre “Santu Ainu” se in montagna, in novembre “Santu Andria” se in pianura.
Contemporaneamente e, più spesso, nella seconda metà di ottobre, si seminavano le fave, verso metà dicembre l’orzo, a gennaio i ceci e i piselli; mentre chi li possedeva, procedeva all’aratura dei piccoli appezzamenti adiacenti all’abitato e irrigui, destinati ad essere coltivati ad ortaggi.
La Semina
Stabilita la quantità di seminagione, che il terreno poteva contenere, il contadino si caricava sulle spalle la bisaccia, “sa bertula”, piena di sementi e iniziava a seminare: lanciava grosse manciate di semi, spargendoli con mano esperta, in quanto la semente doveva essere distribuita in maniera omogenea sul terreno. Quando tutto il campo era seminato, con la terra rivoltata dall’aratro o dalla semplice zappa, si copriva il seme per evitare che gli uccelli non lo portassero via.
La Zappatura
Zappitaian trigu a mes’ annada
in su campu, cantande a sa serena
babbu e fizos a s’ ispensamentada.
Verso metà dicembre si zappavano le fave, a gennaio il grano; i lavori di zappatura procedevano anche a febbraio o a marzo. Nei lavori di zappatura venivano coinvolte anche le donne; tutti insieme uomini e donne, “sos zappitadores”, partivano dal paese all’alba e raggiungevano i campi a piedi, con l’asino o con i carri trainati dai buoi, sui quali si caricavano le provviste e gli attrezzi. Il lavoro era faticoso, si lavorava dal mattino al tramonto, la sosta solo per mangiare. La sera stanchi si rientrava a casa; a volte si dormiva in campagna, in una capanna di frasche, “su pinnettu”, un unico ambiente dove spesso dormivano uomini e donne. In primavera si estirpavano le erbacce: la sarchiatura era curata soprattutto dalle donne.
La Mietitura
Ai primi di giugno si iniziava la mietitura dell’orzo, poi del grano, che durava per tutto il mese. Le spighe mature venivano tagliate con la falce “sa farche”, e si formavano i covoni, “sos mannugros”, che venivano ammucchiati e lasciati inaridire al sole. Quindi venivano trasportati col carro all’aia, “s’arzola”, una spianata aperta, circolare, esposta ai venti, dove i covoni venivano allineati per la trebbiatura. Il mese della trebbiatura era propriamente luglio, detto “triulas” da triulare. Si trebbiava spingendo sul grano una coppia di buoi che trascinavano una pesante pietra. Durante la trebbiatura il grano veniva continuamente rivoltato con una forca di legno, il tridente. La sera i buoi si staccavano e si faceva un mucchio col grano trebbiato; quando soffiava la brezza veniva ventilato, cioè gettato in alto con una pala, per separarlo dalla pula. Spesso, per ventilare, le donne usavano un setaccio, “su chiliru”, o un canestro “sa canistedda”, che serviva allo stesso scopo: si gettava in alto il contenuto in modo che la pula volasse via e i semi ricadessero nel recipiente. Il grano separato dalla pula veniva poi pulito dalle pietruzze e sistemato nei sacchi, “sos burrones”, e dopo il tramonto, trasportato con i carri in paese. La produzione del grano era il tratto distintivo della capacità produttiva di un proprietario. Ciò che distingueva il grande dal piccolo e medio proprietario era il numero dei carri di grano portati in corteo per le vie del paese, nel periodo delle messi. Le provviste del grano venivano conservate nei granai o in recipienti fatti di stoppie, “sas lussias”. Al momento di utilizzarlo, le donne lo pulivano dalle impurità, lo lavavano e, dopo averlo fatto asciugare, lo portavano con le “corbulas” o nei sacchi al mulino a macinare.
Custu mulinu antigu
como nò molede prusu
sa zente l’han’a disùsu
de fagher su pane in domo.
Le eccedenze venivano portate all’ammasso, “s’ammassu”, trattenendo soltanto quanto strettamente necessario per i bisogni familiari e per la semina dell’anno seguente. Nell’immediato dopoguerra, nel tentativo di limitare la penuria di generi alimentari, si mantenne l’ammasso obbligatorio per il grano: ogni produttore consegnava una quota della produzione.