LA PANIFICAZIONE

L’ALIMENTAZIONE NEL TEMPO

Ricerca realizzata dagli alunni della scuola elementare di Bolotana

Terra, casa, grano, pane erano gli elementi indispensabili per la sopravvivenza nella civiltà contadina. Dal tempo dei nostri nonni si sono modificate profondamente le abitudini alimentari. La cucina nel passato era di natura povera, era la cucina dei contadini e dei pastori. Dalle testimonianze degli anziani emerge che, soprattutto il pane, era l’alimento base e tutti lo confezionavano in casa. Gli alimenti più comuni erano il latte, il formaggio, le uova, le patate, le minestre di verdure, i salumi. La carne era il piatto dei giorni di festa. Si mangiava qualche volta la polenta, raramente il pesce. Presenti i dolci, anche se facevano parte delle occasioni liete, nelle famiglie e nella comunità.

Oggi, anche se molti cibi, abitualmente consumati nel passato, sono presenti ancora nella nostra cucina, è cambiata la varietà, il modo di prepararli, di cucinarli e di associarli.

LA PANIFICAZIONE

Nell’alimentazione tradizionale Bolotanese, il pane rappresentava l’alimento principale: la massaia infatti aveva imparato a confezionarne numerose varietà. Almeno una settimana prima che terminasse la provvista o che ci fosse un’occasione particolare, la donna di casa “sa massatza”, prendeva il grano dai sacchi o “dae sas lussias” (enormi recipienti fatti con il giunco maschio e stoppie) o da “sos graneris” (enormi contenitori di legno), lo lavava in abbondante acqua “samunare su trigu” e lo metteva ad asciugare dentro grandi canestri, “sos canisteddos”, al sole, se il tempo lo permetteva, oppure dentro casa. Il grano veniva quindi ripulito dalle pietruzze e altri semi “purgare su trigu” mettendolo in piccole quantità su un setaccio di giunco “su chiliru pro purgare”. Veniva poi portato dentro sacchi bianchi di tela, in genere con l’asino, ad uno dei mulini presenti nel paese di solito a quello più vicino al proprio rione. La farina ottenuta veniva poi setacciata per eliminare, prima di tutto, la crusca, “su linzone”, poi per togliere il cruschello, “su chivarzu”, e infine per separare la farina più sottile, “sa podda”, da quella di prima qualità “sa simula”.

Questo lavoro era piuttosto faticoso, poiché le donne lo svolgevano stando inginocchiate; si utilizzavano, tanti canestri, corbule “sas corbulas”, setacci di diverso tipo: grandi e piccoli, a maglie grosse e sottili. Con la semola si preparavano i pani migliori, soprattutto quelli delle feste “sas cogones” da portare in processione in onore di San’Isidoro.

In ogni casa c’era il forno a legna e una stanza “unu frundagu” dove venivano riposti, sia la provvista di grano, che tutti gli attrezzi che servivano per preparare il pane.

Abbiamo già detto che un tempo il ruolo del pane era basilare e insostituibile nel regime alimentare di tutti: ricchi e poveri. Nessuno si privava del pane. Ognuno ne mangiava tanto o poco, di una qualità o di un’altra, secondo la condizione economica e sociale e secondo il periodo dell’anno. Per chi lavorava in campagna un pasto completo poteva essere costituito da una “fresa” intera con formaggio, salsiccia, lardo, pancetta, olive, cipolla, ricotta fresca o secca, frutta fresca o secca, secondo la stagione. Non si conosceva lo spreco. Era una vecchia usanza non buttare mai il pane, e non soltanto per una motivazione di carattere sacrale, ma soprattutto perché, essendo una cucina  povera, un’eventuale carestia avrebbe avuto un effetto dannoso. I genitori insegnavano ai  bambini che gettare via il pane era “peccato” e, se qualche pezzo cadeva a terra, si ordinava di raccoglierlo, soffiarlo, baciarlo e mangiarlo.

Vari tipi di pane a Bolotana

La massaia aveva imparato a confezionare numerose varietà di pane di lunghissima durata, che consentiva ai pastori in particolare, di disporre del prezioso alimento anche durante i lunghi mesi di lontananza dal paese. Oltre al pane fresa, bianco o scuro, si preparava anche il pane d’orzo, “orzattu” e il pane molle: poddine lentu, cogones lentas, cogoneddas, ammodigadu, chivarzu lentu, pane cun berdas, pane cun patata, pane cun saba, buffulittu.

Pane per le feste.

Pane votivo: cogones de Santu Bachis e de Santu Sidore.

La sera prima della preparazione del pane, la massaia metteva nelle “corbulas” i diversi tipi di farina e preparava il lievito “sa madrighe”, da mettere poi nella farina. Impastava “su frammentarzu”, un pezzo di pasta fermentato, che veniva conservato da una panificazione all’altra. Si lasciava macerare dentro una ciotola con un po’ d’acqua tiepida, finchè si squagliava, e poi si amalgamava con acqua e farina. La pasta così ottenuta “sa madrighe” era di forma rotonda, veniva messa a riposo e ricoperta con un telo bianco, dopo che le si era impresso un segno di croce. Durante la notte lievitava. Intorno alle due, del mattino si iniziava il lavoro vero e proprio e si preparava la pasta.

“CUMASSARE”

Si intiepidiva l’acqua poi, si metteva la farina in “su tianu” (un grande recipiente di terracotta dalle sponde rialzate) e si iniziava a impastare, cercando di non dimenticare il sale e di metterlo nella giusta quantità perché il pane salato era piuttosto disprezzato e quello insipido era pane d’ospite (così veniva detto). Una volta impastato, “cumassadu”, si rimestava a lungo con i pugni chiusi e poi con le palme delle mani aperte. Si trasferiva l’impasto sulla superficie ruvida di un tavolo di legno, chiamato “sa mesa’e suighere”. Si lavorava “cariare” fino a quando nella pasta compatta e liscia non si sentivano le bolle scoppiare. A questo punto si prendeva una quantità di pasta e, sempre lavorando ben bene con le mani, si allungava sino ad avere la grossezza desiderata.  Con il coltello si tagliava in piccole parti che, passati nella farina, si mettevano a riposare in su tianu. Questa operazione si chiamava “orire”.

 “TENDERE”

Ogni pezzo, veniva steso “tendere” con il mattarello “su canneddu” fino ad avere la forma desiderata, cioè ovale o tonda; quindi si sistemava a strati ben pressati in modo che non si sollevasse e continuasse la lievitazione, nei panni di lino, tessuti al telaio, che ogni padrona di casa possedeva. Si lasciava riposare fino a lievitazione giusta. Il tempo dipendeva dalla stagione in cui si panificava. Nel frattempo si preparava il forno “s’inchendiada” e una volta caldo il piano interno veniva accuratamente ripulito con “s’iskopile” una scopa d’erba (prammutza – malva) o chessa (lentischio) innestata sulla punta di un lungo bastone e lo si provava infornando una sfoglia. La pasta era ben lievitata se la sfoglia si gonfiava.

“Pane pesadu” = pane ben lievitato.
“Pane pintuleddu” = pane non lievitato.

Una volta accertato che tutto era pronto, si buttava nel forno un pugno di sale come buon augurio. Si prendevano delle grandi pale ovali di legno e si infornava la sfoglia, lasciandola gonfiare, ma non dorare. Si toglieva dal forno, si apriva la “fresa” e si ottenevano due sfoglie che si mettevano una sopra l’altra fino a formare una pila “sa pira” molto alta, anche questa veniva compressa con un peso perché le sfoglie restassero ben tese e non si accartocciassero. S lasciavano così per alcune ore sino a quando non si raffreddavano.

“FRESARE”

Dopo di che si separavano le sfoglie “ispizzare” e si rimettevano in forno a due a due con una paletta di ferro per renderle ben dorate e croccanti. Le due sfoglie ovali si piegavano in modo da ottenere un pane con quattro “perras” o sfoglie. Le sfoglie tonde si mettevano l’una sull’altra, sino a formare delle pile alte e si conservavano nelle “corbulas” che venivano coperte con teli, o nelle cassapanche. Anche oggi si procede nello stesso modo, ma il lavoro delle donne è alleggerito dall’uso delle macchine.

Su orzattu (pane d’orzo).

E’ il pane che si preparava tanti anni fa nelle famiglie più povere e in tempo di guerra. L’orzo prima di tutto veniva lavato e ripulito (come abbiamo già visto per il grano) e poi macinato. La farina veniva separata dalla crusca e poi si procedeva a preparare “sa fresa longa” e qualche volta “sa fresuzza”, allo stesso modo del pane di grano, ma il lavoro era più difficoltoso e dovevano eseguirlo persone molto pratiche. Questo tipo di pane durava anche tre mesi. Gli antichi dicevano di non augurare a nessuno la sorte di dover  mangiare il pane d’orzo.

Pane cun berdas (ciccioli).

 Ingredienti: farina, lievito, ciccioli, acqua e sale.

La farina veniva impastata con acqua tiepida, lievito e sale e poi lavorata per un bel po’ “cariada”, e successivamente a poco a poco, venivano mescolati i ciccioli rimasti dalla preparazione dello strutto. Ne venivano fatte piccole focacce schiacciate, infarinate e cotte al forno. Si preparava in autunno e in inverno in concomitanza con l’uccisione del maiale.

Pane cun patata.

Ingredienti: farina, lievito e patate prima lesse, poi sbucciate e macinate.

Si procedeva nello stesso modo del pane con i ciccioli.

Poddine lentu: pane molle, rotondo, di fior di farina.

Ingredienti: semola, acqua, sale, lievito.

Veniva impastata la farina con il sale, il lievito e l’acqua tiepida. La pasta veniva lavorata bene e, ogni tanto, poiché era molto dura, veniva inumidita e si continuava a lavorarla fino a che non si formavano le bolle, segno che indicava che ormai era pronta. Si facevano delle palle e si stendevano in forma tonda con il mattarello. Sopra si praticavano dei disegni particolari con la rotella “sa rodanza” e con il timbro di famiglia. Questo era di due tipi: sottile “poddine lentu”, spesso “cogone russa o cogone lenta”. Si mettevano a lievitare in mezzo ai panni, sui letti o sui tavoli e poi si cuocevano nel forno ben pulito.

Il “poddine lentu” veniva inserito nel forno finchè non si gonfiava; veniva bagnato da una sola parte con un panno di lino ben pulito “iscaddadu” e rimesso al forno. La superficie diventava tanto bella, lucida e dorata.

Le “cogones russas” si consumavano subito, mentre su poddine lentu si faceva seccare e si usava e si usa per fare la zuppa con i finocchi.

Su Buffulittu.

 Ingredienti: semolato (farina più semola), acqua, sale, lievito.

La preparazione è la stessa degli altri tipi di pane, cambia la forma e il modo di cottura. Su biffulittu era una palla di pasta ben lievitata alla quale, prima di essere infornata, veniva praticato un piccolo taglio alla sommità. Per poterlo cuocere si toglieva dal forno il fuoco, in modo che la cottura avvenisse lentamente e gradualmente. A cottura ultimata doveva avere un colore dorato, la crosta croccante e la mollica morbida e soffice.

Il pane delle feste “Sas cogones pintadas”.

Generalmente si preparava nei giorni precedenti la festa: Pasqua, Natale, San Bachisio e Sant’Isidoro, matrimoni, battesimi. Veniva utilizzata semola di grano duro, acqua tiepida, sale e lievito. L’impasto doveva essere molto duro, consistente e, durante la lavorazione “cariadura”, si passava ogni tanto la mano bagnata sulla pasta per darle l’elasticità “sa caria” necessaria. Si faceva in tanti pezzi, si lavorava con la rotella “sa rodanza”, i temperini e le forbici e si creavano tante figure di cose e animali: mele, borsette, pesci…… Si lasciavano lievitare una a fianco all’altra, su delle superfici piane e ben coperte. Si cuoceva nel forno dal quale era stato tolto il fuoco, perché, “sas cogones”, dopo la cottura, dovevano risultare dorate e non bruciate.

Questo pane si doveva mangiare entro pochi giorni, altrimenti diventava troppo duro.

Il pane votivo per Sant’Isidoro.

 “Sas cogones de sa processione de Santu Sidore”.

Veniva preparato in genere da persone che chiedevano aiuto al Santo per avere un buon raccolto di foraggio, grano, orzo e avena, essendo il protettore degli agricoltori. Era un pane azzimo, cioè fatto senza lievito. Si preparava una sfoglia sottile di semola di grano duro e sopra venivano messi dei decori, fatti ugualmente di pasta: uccellini, fiori, frutta, angioletti, foglioline e animali veri, sagomati con “sa rodanza”, con temperini di vario spessore e forbicine. Ultimata la decorazione si metteva al forno per seccarlo senza che prendesse colore.

Questo tipo di pane, generalmente non veniva mangiato, ma veniva portato nelle processioni per essere benedetto. Dopo si tagliava a pezzetti, lo si regalava a parenti e amici che tenevano in casa come una cosa sacra. Erano dei capolavori stupendi, alla preparazione dei quali collaboravano tante persone, ma soprattutto le massaie più brave e più estrose.

Ancora oggi è così.

La preparazione del pane era un forte momento di aggregazione sociale, di scambio di manodopera di prodotti, di solidarietà.